Mentre i rondisti perseguono le loro ricerche di stile elaborando elzeviri o “capitoli” di preziosa raffinatezza, c’è chi affronta il romanzo. Vediamo attraverso due narratori, Federigo Tozzi e Borgese, questo altro aspetto della produzione di prosa degli anni Venti.

Federigo Tozzi (Siena, 1883 – Roma, 1920) ebbe un’esistenza travagliata. Sia per ragioni pratiche ed economiche, sia per le difficoltà che incontrò ad inserirsi negli ambienti letterari; un entusiastico riconoscimento per il suo lavoro gli venne, da parte di Borgese, solo nell’estremo periodo della sua vita.

VERSO IL ROMANZO

L’opera di Tozzi si può considerare come un esemplare itinerario dal frammento al romanzo, dall’autobiografismo che si esprime in moduli lirici all’oggettivazione e quindi alla creazione di personaggi e di vicende con una loro realtà umana; il problema critico è quello di verificare fino a qual punto Tozzi sia riuscito ad operare questo passaggio. Problema importante, questo, e non solo per un’intrinseca valutazione dello scrittore senese, ma perché il suddetto rapporto tra vocazione lirica e impianto lavorativo si porrà, come vedremo, per altri scrittori nei decenni successivi come Alvaro o Pavese o Vittorini. E anche questa posteriore attualità di un problema nel quale egli si dibatte contribuisce a rendere interessante il caso Tozzi.

Pur se opera da isolato, estraneo alle mode e ai gruppi letterari, Tozzi recepisce però gli orientamenti del tempo e Bestie (1917) – una raccolta di impressioni, meditazioni e spunti lirici sulla campagna, sulla dura fatica degli uomini e degli animali – è senz’altro da considerare come una prova di frammentista. Il discorso cambia con le altre sue opere (Con gli occhi chiusi, 1919; Tre croci, 1920; Il podere, 1921) che intanto, dal punto di vista esterno, si presentano come vere e proprie storie, con un vero e proprio impegno narrativo.

TRE CROCI

I tre fratelli Gambi – Giulio, Niccolò ed Enrico – hanno, a Siena, una libreria. Ma nessuno dei tre è in grado di dare impulso al commercio e la loro vita è un torpido lasciarsi andare. Giulio, che pure è intelligente ed ama la cultura, trascura gli affari. Niccolò è troppo instabile nei suoi interessi, non fa niente e soffoca le sue preoccupazioni economiche nei piaceri della tavola; Enrico poi è il più abulico fra i tre.

Così gli affari vanno di male in peggio e non serve a risolvere la situazione un prestito giunto ai fratelli dal buon cavaliere Nicchioli. Cambiali, scadenze, firme false diventano di casa dai Gambi: solo le donne – Modesta e le due giovani nipoti Chiarina e Lola – sono all’oscuro di tutto, perché in casa la vita apparentemente continua come sempre. Ma la rovina è ormai prossima: e con la rovina giunge anche la vergogna. Giulio non regge a tanto e si suicida, mentre i due fratelli non hanno il tempo di rifarsi una vita perché, a breve distanza uno dall’altro, muoiono.

Trama dell’opera.

L’INETTO

In questi romanzi c’è un tipo umano costante: una figura di vinto, di creatura travolta e:

Macerata in una vita immonda e strangolatoria che tuttavia non prevale fino a scancellare in fondo all’anima un segno di superiore umanità.

Cecchi

Si tratta di un tipo di uomo malato nella volontà, che ha coscienza della sua incapacità di vivere, che si abbandona agli eventi e alle cose e se ne fa coscientemente travolgere. Tali sono Pietro in Con gli occhi chiusi, Giulio in Tre Croci, Remigio Selmi ne Il podere. Si osserva a tal proposito che in queste figure c’è, in ultima analisi, un fondo di soggettivismo, di autobiografia. Tozzi fa di questi personaggi una proiezione della sua triste, cupa visione del vivere, persino di specifici casi della sua esperienza. Le difficoltà incontrate, ad esempio, per amministrare dopo la morte del padre alcuni poderi della campagna di Siena. Ma si possono osservare due cose:

  1. Anzitutto questo tipo umano, malato nella volontà, incapace di vivere, sarà, nel clima di quegli anni, destinato ad essere ripreso e a costituire quasi una costante di tanta narrativa. Si pensi, con le inevitabili differenze, a Borgese e a Moravia.
  2. La componente lirico-autobiografica (che è certo la maggiore remora perché un autore oggettivizzi e realizzi figure e psicologie autonome) non è tale da escludere in Tozzi notevolissimi risultati di creazione secondo i moduli propri della narrativa. Si pensi a figure come la Ghisola, la contadina fidanzata di Pietro in Con gli occhi chiusi, a Niccolò ed Enrico in Tre croci, al finale de Il podere che si concretizza in una rappresentazione drammatica e asciutta della violenza degli uomini e della natura.

LA CRESCENTE ESTIMAZIONE CRITICA

Di fronte alle contemporanee esperienze del formalismo rondista, Tozzi coi suoi risultati ha indicato la via per un superamento: una soluzione narrativa che non dimenticasse la lezione del passato. E certo in questa lezione c’era Verga, di cui proprio in quegli anni, col saggio di Luigi Russo, cominciava – dopo un lungo silenzio – la scoperta. Nel 1923 Borgese, pubblicando la raccolta di saggi Tempo di edificare, così la giustificava:

Il libro si inizia nel nome di Giovanni Verga, l’edificatore del vecchio tempo, più devoto e paziente. Lo dedico alla cara memoria di Federigo Tozzi, uno dei primissimi edificatori della nuova giornata letteraria italiana.

Borgese

Su Tozzi il dibattito critico è stato particolarmente complesso. Le prime intuizioni della sua grandezza e della sua consonanza con le contemporanee esperienze europee si ritrovano nel numero unico che “Solaria” gli dedicò nel 1930, dove è di particolare rilievo l’accostamento di Tozzi a Franz Kafka fatto da Aldo Capasso; ma queste intuizioni non hanno avuto sviluppo. Nei primi anni Sessanta inizia una nuova lettura, promossa da G. Debenedetti e continuata da una nutrita schiera di critici (L. Baldacci e G. Luti con particolare impegno), che ha messo in luce la grandezza del narratore e la sua dimensione di “classico” del Novecento.

Il relazione agli apporti di questa lettura (o di queste letture), di Tozzi vanno colte e valorizzate la dimensione lirica e visionaria assieme, che interiorizza nella coscienza del personaggio dati paesistici e vicende, conferendo loro imprevedibili echi; la mobilità e l’incastro dei piani narrativi; il sottofondo di inquietudini, di oscure pulsioni che è nei personaggi dei suoi romanzi e che dà a queste storie di provincia una dimensione europea.

Su tale dimensione ha insistito il Debenedetti, sottolineando (possiamo fare solo degli accenni) il rapporto Tozzi-Kafka, accomunati entrambi da un’acuta sensibilità religiosa, da un sofferto complesso edipico. Come in Kafka anche in Tozzi la matrice autobiografica (l’oppressione di un padre-padrone, la morte della madre) diventa personaggio oggettivato. Questa vicenda funge da specchio di una generale condizione umana. Questa poi è vista dallo scrittore come estrema durezza, come rapporto di violenza e di sopraffazione, come scontro di oscure pulsioni distruttive e autodistruttive, e rappresentata con un’esigenza di assoluta e crudele verità. Di recente Ador Rosa ha scritto che:

Tozzi è l’unico “scrittore della crudeltà” che il Novecento italiano abbia conosciuto.

Asor Rosa

CONCLUSIONE

Indubbiamente la pagina di Federigo Tozzi è spigolosa e sgradevole, e per questo non ha avuto – né forse avrò mai – un vasto pubblico. Ma questo ci sembra un dato di relativa importanza, a meno che non si pensi di equiparare la letteratura all’intrattenimento o il giudizio di valore al successo. Importante è invece, alla luce del dibattito di questi ultimi decenni, riconoscere che la letteratura italiana negli anni Venti acquista dimensione europea non solo con Pirandello e Svevo, ma anche con Federigo Tozzi. A questo proposito non sarà inutile ricordare ancora che europea è la tipologia umana che ricorre nei suoi romanzi: una figura di vinto, di “inetto”. Si tratta di una tipologia umana destinata ad essere ripresa, e a costituire quasi una costante di tanta narrativa di quegli anni.