Siamo giunti all’ultimo appuntamento dedicato alla scoperta degli autori selezionati da De Tomi Editore; dopo Felice Muolo e Barbara Binotto, conosciamo Remo Badoer, autore della raccolta di racconti “Diffidate della realtà”.
Remo Badoer, L’uomo dietro la penna. Raccontaci un po’ di te!
Mi piacerebbe dire che dietro la penna c’è un bambino che leggeva un sacco di libri, ma questo non vuol dire niente, un mucchio di scrittori e lettori potrebbero dire la stessa cosa, quindi fermarsi lì sarebbe barare, perché non spiega il motivo per cui quel bambino leggeva un sacco di libri.
Il mio motivo, quello degli altri non lo so, è che quello era un bambino solo. Intendiamoci, non è che io fossi solo perché non c’erano altri bambini con cui giocare o la mia famiglia mi trascurasse, questo proprio no. Ero solo perché io ero e mi sentivo differente, refrattario alle cose che interessavano gli altri: quando i miei amici parlavano di calcio, di automobili, di televisione, beh, io mi annoiavo, mi sembravano cose stupide (e neanche capivo perché passassero ore a tirare calci a una palla). E sì che ci ho anche provato, a giocare con le figurine, a tifare per una squadra, anche a giocare a calcio (mi sbattevano sempre in porta per via che ero imbranato e portavo gli occhiali), ma niente da fare ero tetragono alla normalità. Per tanto tempo ho pensato di essere matto, fuori posto, ma non ne parlavo con nessuno e mi tenevo tutto dentro, quindi me ne stavo da solo. Non che questa cosa mi dispiacesse, perché così avevo più tempo per fare le cose che mi piacevano veramente: leggere e fantasticare. Ero avido, leggevo tutto quello che mi capitava sotto mano e quando non trovavo niente andavo in soffitta a leggere le vecchie riviste anteguerra di mio padre o i romanzetti rosa delle mie sorelle più grandi, e le storie che leggevo poi le facevo mie e nella fantasia le cambiavo, mischiavo i personaggi, modificavo il finale, inventavo situazioni, luoghi, addirittura creavo nella mia testa dialoghi tra questi personaggi… D’accordo, ero fuori di testa ma, come dicevo, la cosa non mi disturbava.
Andando avanti con gli anni, le cose sono cambiate ma non più di tanto. Per tanto tempo è stato come se ci fossero due universi paralleli. C’era quello della vita di tutti i giorni in cui avevo amici, mi divertivo, studiavo (insomma…), facevo la corte alle ragazze, giravo in motorino e via dicendo, ma siccome questo era un mondo che non potevo (e neanche volevo) condividere fino in fondo mi tenevo stretto un altro universo, fatto di fantasia che alimentavo con letture insolite per un adolescente: alchimia medioevale esoterismo, ESP, filosofia, magia… tutto quello che era al di fuori della normalità era il mio pane quotidiano. Così, continuavo a tenermi fuori dalla realtà comune, anche perché la gente attorno a me continuava a interessarsi a cose che non interessavano a me: denaro, carriera, moda, cinema -oltre che, naturalmente, di calcio e automobili.
Verso i 20 anni, per fortuna, ho scoperto che c’era altra gente come me, gente con una mente aperta, che quando raccontavo delle mie fantasie non mi prendevano in giro e neanche scuotevano la testa in segno di commiserazione. Uscii da quel guscio che mi ero costruito attorno, mi aprii al sociale e alla politica, oltre a ciò che chiamavamo ( finalmente potevo usare il ‘noi’, era diventato parte di qualcosa!) “allargare l’area della coscienza” e tra la musica rock e l’impegno politico incontrai degli amici con la A maiuscola, persone splendide con cui potevo condividere idee, esperienze, ideali (una di queste persone poi l’ho anche sposata, ma questo è un altro discorso).
Le mie letture ora erano di storia, politica, sociologia, volevo cambiare il mondo ed era una cosa fantastica, però non avevo tenuto conto del fatto che per cambiare il mondo bisogna prima cambiare se stessi. E siccome io di fondo ero rimasto sempre lo stesso, quando la vita cominciò a presentarmi il conto con una serie di sberle pesanti, una dopo l’altra, come la morte di mio padre e i problemi in famiglia, l’abbandono da parte della donna su cui aveva puntato tutto (troppo), il reflusso e la morte delle ideologie, la brutta fine di amici per faccende di politica o di droga, ecco, non sono stato capace di reagire e sono caduto in una depressione pesante. La vita mi appariva inutile, stupida e dolorosa, non trovavo niente né di interessante né di valore. Abbandonai gli studi e mi trovai un lavoro qualsiasi, incominciai ad avere comportamenti autodistruttivi, mi misi in mezzo a storie di cui ora non vale la pena parlare -o di cui è meglio proprio non parlare del tutto. Ero completamente asociale e persi quasi tutti gli amici (me ne restarono pochi, i migliori, e con il senno di poi credo che quella scrematura sia stata una delle poche cose positive che mi ha lasciato quel periodo).
Comunque, il bambino curioso non se n’era andato e, dal momento che io non ero riuscito a cambiare il mondo, lui mi suggerì che forse era meglio provare a cambiare me stesso così la mia ricerca si riversò sulla filosofia e la psicologia, solo che alla lettura e allo studio affiancai la pratica e sperimentai su me stesso tecniche di vario genere, di vecchie e nuove scuole: autoipnosi, meditazione, regressione, PNL, EFT, battiti binaurali, non mi feci mancare nulla, mi unii anche a gruppi che si occupavano di faccende del genere, facendo però scelte sbagliate e in qualche caso pure pericolose.
In ogni caso, a qualcosa tutto questo deve essermi servito se un giorno, di punto in bianco, mentre lavoravo, ebbi come una illuminazione e mi chiesi “Ma che c**** ci faccio io qua ?” e mi misi a ridere di me stesso. Fu come uscire da una cella: riuscire a ridere della vita, della morte, del mondo, ma soprattutto riuscire a ridere di me stesso mi donò veramente la libertà. “Mostratemi le cose di cui un uomo non riesce a ridere ed io vi mostrerò le sue catene”, scrisse una volta un saggio, e quello divenne il mio motto.
Di conseguenza, anche la mia vita cambiò. Mollai il lavoro che avevo e andai a fare il bibliotecario, lavoro che volevo fare fin da ragazzo quando ero entrato la prima volta in una grande biblioteca, e questa fu una storia esaltante perché oltre a sguazzare in un ambiente amico mi ritrovai a vivere da protagonista l’arrivo di internet. Ecco, io quando vedo un PC collegato in rete mi commuovo ancora, e torno alla prima volta in cui, davanti ad un tristissimo schermo nero con caratteri bianchi digitando comandi unix che neanche ricordo più, mi collegai con una università inglese per scambiare informazioni bibliografiche con un collega. Era un mondo nuovo, e io c’ero dentro.
La mia vita era diventata positiva, piacevole e interessante. Soprattutto, incominciai a vivere nel modo migliore, con leggerezza e senso dell’umorismo che non significavano superficialità o distacco dal mondo comune, significavano un modo di vivere che mi permetteva di godermi la vita senza entrare in trappole quali la corsa ai soldi, al successo, alla carriera. Conobbi altre persone in gamba, ebbi nuovi interessi, presi a viaggiare per l’Europa, avevo persino qualche successo con le donne, cosa che qualche anno prima avrei ritenuto impossibile.
Ripensandoci però devo dire che in questa fase della mia vita ero diventato forse troppo fiducioso di me e persino un po’ presuntuoso, almeno nel mio profondo. Non tenevo conto del fatto che “chi troppo in alto sal…” con quel che segue. Un bel giorno di primavera mi sentii battere sulle spalle e quando mi girai per vedere chi fosse incontrai la Nera Signora che mi faceva “cucu!”. Ci feci assieme quattro chiacchiere, poi ci dicemmo arrivederci e quando uscii dall’ospedale dopo l’infarto le carte in tavola erano cambiate di nuovo e, anche se si fa fatica a crederci, a mio vantaggio. Fui costretto a darmi una regolata sia fisica che spirituale, smisi di fumare e abbandonai tutti gli altri comportamenti autodistruttivi (beh… quasi tutti), e incominciai a buttare via, senza fatica, quintali di zavorra mentale che mi portavo dietro più per abitudine che per necessità. Continuavo a sentirmi diverso, sì, ma non me ne fregava più niente. Ritrovai anche la donna di cui mi ero innamorato a 20 anni, una di quelle persone splendide che hanno sempre illuminato la mia vita e assieme a lei, senza rinunciare a niente di ciò che sono stato prima, ho scoperto una bellezza della vita che ancora non avevo mai visto. Ora l’uomo dietro la penna è un uomo felice, ma sono convinto che dovevo fare tutto quello che fatto per arrivare fin qui, e che quelle vecchie storie, sia pure con leggerezza e serenità, me le porto ancora dietro, ed è per quello che in ciò che scrivo si trovano l’umorismo e l’inquietudine, il buio e la luce, la follia e l’amore, la vita e la morte, spesso anche mischiati assieme. E va bene così.
Perché un lettore dovrebbe scegliere “Diffidate della realtà”?
Uhm. Bella domanda. Ho fatto il bibliotecario e so che bisogna conoscere il lettore per consigliare un libro. A chi consiglierei allora questo libro? Beh, certamente a quei lettori che hanno voglia di leggere qualcosa di diverso, che hanno voglia di mettere da parte per un po’ la logica e la linearità della narrativa ‘classica’ per scoprire dei punti di vista, delle visioni e delle percezioni inusuali, incongrue quasi.
Si tratta infatti di racconti dove l’assurdo e il surreale si mischiano con la vita di tutti giorni (e viceversa, se no non c’è gusto), storie altalenanti tra il comico e il tragico, il grottesco e l’onirico: leggere uno dei racconti di ‘Diffidate della realtà’ è come alzarsi la mattina, aprire la finestra, guardare fuori e scoprire un mondo, una realtà appunto, che prima non c’era.
Che altro dire? Mia moglie mi suggerisce che lei comprerebbe “Diffidate della realtà” perché sono racconti scritti bene, facili da leggere ma per niente banali. Uhm. Può essere, ma Anna mi vuole bene e se un giorno mi vedesse con una mutanda in testa mi direbbe “Che bene che stai!”. Però ha ragione: scritti bene sono scritti bene e banali non lo sono. Sì, sì, lo so che tessere le proprie lodi è come portare un topo morto a un matrimonio, ma quel che si deve dire, si deve dire: in fin dei conti, se diversi di questi racconti sono stati premiati in vari concorsi letterari e se la raccolta intera ha ricevuto una menzione di merito ad un Premio nazionale, un motivo ci sarà!
Un’ultima cosa. Io ho l’abitudine di seminare ogni tanto dei riferimenti che non sono facili da trovare (credo che neanche l’Editore li abbia scoperti). Ecco, ai miei lettori lancio questa sfida: se pensate di averne trovato uno, contattatemi su FB e il primo che ci imbrocca avrà in omaggio un racconto inedito, scritto solo per lui.
Quali sono – se ci sono – i tuoi “idoli” letterari?
Un mio racconto di qualche tempo incominciava così: “C’era una buona dose di ironia nel fatto che, piccoletto e calvo com’era, Landolfo Raimondo de Gianrodolfi Dini portasse un nome così altisonante che strideva decisamente con il suo aspetto fisico…”. Ecco, in questo nome si ritrovano (quasi) tutti i miei numi tutelari, quelli che mi piace immaginare stiano alle mie spalle quando scrivo. ‘Landolfo’ sta per Tommaso Landolfi, ‘Raimondo’ sta per Raymond Queneau (in rappresentanza di tutta la banda dell’OuLiPo), ‘Gianrodolfi’ sta per Juan Rodolfo Wilcock, ‘Dini’ per Dino Buzzati. Uhm. Dite che manca qualcuno? Già, ma se tenete conto della descrizione fisica del personaggio salta fuori sì qualcun altro, probabilmente il mio favorito in assoluto. 😉 (però mi sono accorto che non ci ho fatto stare dentro Kafka… sarà per la prossima volta).
E poi nel mio cuore, più che nella mente, ci sono altri grandi, non numi tutelari ma veri portenti, forze della natura, pezzi da novanta del calibro di Rabelais, Swift, Joyce, Shakespeare, Dante: si parla tanto di stare sulle spalle dei giganti ma quando penso a questi mi accorgo che al massimo sono già bravo ad arrampicandomi per i risvolti dei loro pantaloni, e li ho messi sullo scaffale più in alto della mia libreria, così mi risparmio la fatica di chinare la testa in segno di rispetto quando ci passo sotto.
Uno sguardo al futuro, stai già lavorando al prossimo scritto?
Beh, continuo a scrivere racconti, e sto elaborando anche una forma narrativa mooolto particolare, una cosa che mette insieme scrittura, graphic novels e archivistica.
Sto anche lavorando (oddio… lavorare è una parola grossa) ad un paio di romanzi/racconti lunghi: gli schemi sono già belli pronti, ho anche iniziato a scriverli ma vado avanti a rilento. Il problema è che non riesco a concentrarmi, a dire “Va bene, adesso lavoro su questa cosa e per 2, 3 ore non faccio altro”. O meglio, magari anche lo dico, ma poi sto là a scrivere e arriva un’altra idea (che magari non c’entra niente), mi tira per l’orecchio e mi porta da qualche altra parte, e hai voglia tu di dire “Prendo un appunto e ci penso dopo” come consigliano di fare gli scrittori seri! Quella mi stacca l’orecchio, non mi molla, e allora mi lascio portare via anche se non so mai dove poi arrivo, sempre ammesso che da qualche parte arrivi… O forse il vero problema è che per scrivere mi devo divertire, e quando scrivere diventa pesante e non mi diverto più, beh, allora è meglio che io faccia qualcos’altro, magari posare la penna e tornare a indossare i panni consunti, ma caldi e comodi, del lettore.
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