L’autore del giudizio ricordato sull’articolo riguardante Tozzi, Giuseppe Antonio Borgese (Palermo, 1882-1952), aveva avuto parte notevole nelle riviste fiorentine del primo Novecento. Troppo lungo sarebbe esaminare la sua maturazione critica e ideale che lo porterà, di fronte al fascismo trionfante, ad abbandonare la cattedra dell’università di Milano e a trasferirsi in America, dove insegnò fino al suo ritorno in Italia nel 1945. Ai fini del nostro discorso – dal frammento al romanzo – di lui mi limito a sottolineare la battaglia per il realismo che come critico militante conduce in questi anni (Tempo di edificare, La vita e il libro) e il suo romanzo Rubé del 1921.
LA TRAMA
Filippo Rubé, giovane avvocato siciliano, è a Roma per trovare. Ma finisce invece per arruolarsi come volontario allo scoppiare della prima guerra mondiale. Le esperienze della guerra lo trasformano, da quell’ardente interventista che era, in un dubbioso e tormentato uomo che della realtà post-bellica non sa cogliere che la precarietà e la confusione. Nemmeno la bella e delicata moglie può dargli la felicità o almeno un sereno senso della vita, anzi il matrimonio fallisce per l’incapacità di Rubè di instaurare franchi rapporti umani. Nulla, nella vita del protagonista, ha fondamento e sicurezza, tanto meno il lavoro e la situazione economica, che da precaria diventa disperata. Solo un casuale colpo di fortuna – una vincita al gioco – gli apre uno spiraglio. Parte quindi per Parigi, ma si ferma invece sul lago Maggiore; vi incontra un’amica con la quale apre una parentesi sentimentale che però si conclude, per un incidente, con la morte della donna; egli non è colpevole di quanto accaduto, ma viene ugualmente accusato e processato.
L’assoluzione non basta peraltro a ridargli tranquillità e fiducia: empre più tormentato e inquieto, cerca invano di riallacciare dei rapporti affettivi ora con un amico, ora con la madre, ora con la moglie. Ma la sua vita si conclude tragicamente e simbolicamente: viene trovato in un tumulto di piazza, mentre tiene in mano una bandiera rossa e nell’altra una bandiera nera.
GIUDIZIO CRITICO
Malgrado abbia avuto a suo tempo positivi apprezzamenti di critici autorevoli, Rubè è oggi un’opera che non ha conquistato nell’estimazione dei critici e dei lettori quel posto che merita. Tuttavia, ai fini del discorso, è opportuno ricordarla per gli aspetti notevoli che potrebbero essere così individuati:
PUNTO 1
Con Rubè, Borgese tenta una rappresentazione dei punti nodali della contemporanea storia italiana: l’interventismo, la guerra, il confuso e drammatico dopoguerra. Qui c’è biografia, non autobiografia, di una generazione. Non l’esaltato soggettivismo quale si era avuto con un Uomo finito di Papini, né la dimensione diaristica che caratterizza le migliori opere, colme di dolente partecipazione, ispirate alla guerra (Con me e con gli alpini di Jahier, Un anno sull’altipiano di Lussu ecc.). Qui ci sono personaggi autonomi, vicende, contemporaneità politico-sociale:
Ciò che in questo romanzo si racconta, i contrasti che vi si accennano, le idee che vi si dibattono sono finalmente cose che a noi importano.
Pancrazi
PUNTO 2
Il romanzo è la prima, dolente contestazione delle mitologie dannunziane (quella gozzaniana del Totò Merùmeni è su tutt’altro versante). Borgese mette in luce con un’analisi lucida e spietata l’arido estetismo, le infatuazioni per la vita inimitabile, la retorica del bel gesto che tanta suggestione avevano esercitato sugli intellettuali piccolo-borghesi – e Filippo Rubè è uno di questi – e mostra come, a contatto con la tragica esperienza della guerra e dei tempi nuovi, quelle mitologie siano miseramente destinate a crollare.
PUNTO 3
Con Filippo Rubè, Borgese toglie i luccicanti orpelli all’eroe dannunziano e ne mette a nudo tutta la falsa grandezza. Ma, nel contempo, dà un apporto notevole alla configurazione di un nuovo personaggio, di un esemplare che nella tipologia di quegli anni incontreremo sempre più frequentemente. Portato a notomizzare se stesso, complicato dall’analisi che fiacca la volontà e sgretola le certezze, straziato dalla solitudine, incapace di fedi e di miti, questo nuovo tipo umano, questo “uomo senza qualità” sarà, nel romanzo di Borgese e in tanti altri posteriori, vittima del caso e dell’assurdo vivere, “indifferente” e “straniero” alla società, oppresso dall’angoscia esistenziale.
PARAGONI LETTERARI
C’è un aria di famiglia, che non esclude le ovvie differenziazioni, tra i personaggi di Tozzi – a proposito del quale è iniziato questo discorso – e questo di Borgese e il protagonista della “Coscienza di Zeno” e quelli de “Gli Indifferenti” e tante posizioni degli “Ossi di seppia” di Montale (e si potrebbe andare oltre). Opere tutte di questo periodo, che riflettono la crisi specifica della società italiana, ma che nel contempo si inseriscono in un orientamento di dimensione europea.