Finalmente è giunto il tanto atteso 18 maggio, che porta in dote la riapertura di – quasi – tutte le attività e l’abbandono delle tanto odiate e mutevoli autocertificazioni. Il governo parla di ripresa, lento ritorno alla normalità: io ci vedo solo un mare di incognite e problemi a cascata.

Queste weekend, passeggiando nei dintorni di casa, ho notato un diverse serrande abbassate con il cartello di cessata attività; loro il 18 non riapriranno, così come nei giorni successivi. Era impensabile, per piccole imprese o negozi già presi per il collo, sopravvivere a due mesi di tasse senza un minimo ritorno. Che poi, qualcuno dovrebbe pur spiegare ai 400 e passa esperti di Palazzo Chigi che 600 euro bastano a malapena per pagare una mensilità d’affitto. Ma questa è solo la punta di un grande iceberg.

Ieri sento mia zia, è contenta di ripartire ma è preoccupata. Lavora come parrucchiera indipendente in un paesino di mille abitanti. Un funzionario del comune le ha detto che, essendo da sola, può ricevere nel proprio salone un solo cliente alla volta. Lei mi dice:

Ma se a una cliente faccio un servizio come una tinta o simili e devo lasciarla in posa mezz’ora o un’ora, che faccio nel frattempo? Come mi pago quell’ora di apertura “statica”. Mi sembra assurdo, avrei tranquillamente lo spazio per gestire tutto nel rispetto del distanziamento sociale.

Per non parlare delle precauzioni “sanitarie”: sacchetti usa e getta dove vanno messi gli effetti personali di un/una cliente all’arrivo; asciugamani usa e getta, o in alternativa da lavare per mezz’ora a 60° prima di ogni riutilizzo. Gel igienizzanti e soluzioni idroalcoliche, mascherine, guanti; sanificazione settimanale dell’intero salone. Chi paga tutto questo?

Sono perplessità legittime, che come lei chissà quanti milioni di italiani si staranno ponendo in queste ore. Poi penso ai ristoratori e a chi vorrà andarci, al ristorante. A dirsi sembra tutto facile:

  • Distanzia i tavoli almeno a un metro uno dall’altro;
  • Togli i menu cartacei, che sono un rischio di veicolazione;
  • I camerieri devono igienizzare le mani tra un servizio e l’altro;
  • Meglio se lavori solo su prenotazione, per gestire meglio i flussi;
  • Meglio se accetti solo le carte, che i soldi cartacei sono un rischio;
  • Assicurati che non si creino code alla cassa.

Ora, parliamoci concretamente. La sopravvivenza di un ristorante, soprattutto se si considerano i costi di gestione, si basa al 90% nella capacità di fornire un servizio rapido e allo stesso tempo di qualità. Più coperti si fanno, più si guadagna. Tutte queste regole rendono IMPOSSIBILE un lavoro agile e rapido, costringendo le attività di ristorazione a dimezzare – se non peggio – il numero di coperti. E qual è la conseguenza di un calo del lavoro? Tagli al personale. Come può, un paese che ha già sofferto tanto economicamente, ripartire mettendo in ginocchio delle attività che di fatto sono già a terra? Non lo so, sono perplesso. Questo discorso si può estendere a qualunque altro servizio, per esempio al turismo (balneare e non).

E infine, al di là di ogni riflessione economica, penso al lato umano che esula da tutto questo. Penso a quando potrò riavere le colazioni a buffet in un rifugio di montagna, a quando potrò sedere a un tavolo di ristorante con quattro amici e ridere di gusto senza preoccuparmi del virus; temo il giorno in cui mi andrà di traverso qualcosa mentre mangio e tutti mi guarderanno storto, additandomi come untore. Penso a queste e altre mille cose, mentre mi sembra che il 18 maggio sia tutto tranne che una ripresa.