Giunta dall’esterno della Sicilia, quella vita cavalleresca – mescolanza di colori e ricordi orientali – non ebbe riscontro nella vita nazionale. Possiamo dire che i poeti siciliani commisero il peccato originale.
LA FAVOLA DELLA VITA CAVALLERESCA
I romanzi della tavola rotonda, le novelle arabe, il codice d’amore, tutto questo era penetrato in Italia; se colpiva l’immaginazione, tuttavia, rimaneva estraneo alla vita reale. Nelle corti ce ne fu l’imitazione: diventarono di moda traduzioni, imitazioni, contraffazioni di poemi, romanzi e rime cavalleresche.
Per quanto concerne la bellezza femminile, non c’era più una fisionomia varia, ma prese sempre più piede una forma fissa, sia per gli uomini che per le donne. Allo stesso modo, i sentimenti vennero omogeneizzati e persero “l’identità sessuale“. Probabilmente, se la corte di Federico II di Svevia fosse durata più a lungo, questa vita cavalleresca sarebbe divenuta realistica. Tuttavia, la vittoria dei comuni nell’Italia centrale rese tutto questo una leggenda.
L’ARTE IMPERSONALE
Le idee, i sentimenti e l’immaginazione sono canoni già impostati, dunque non propri dell’immaginazione. Il risultato è un contrasto tra la forma rozza e concetti raffinati. Il poeta dice che l’amore lo fa “trovare“, lo rende un trovatore, ma si tratta di un amore già scritto in un codice, appunto. Non è un sentire delle sue tragedie e dei personali moti d’animo, ma sono le idee in voga al momento a ispirarlo. L’arte dunque diventa totalmente impersonale: una distrazione, un sollazzo, un passatempo.
L’arte diviene un mestiere, mentre il poeta diventa un dilettante. Tutto è convenzionale: concetti, frasi, forme e metri. Questo esercizio stilistico – perché in altri modi non si può definire – stupiva il popolo, ma ebbe terribili conseguenze.
POETI ROZZI CONTRO POETI COLTI
Quello che avvenne si può indovinare. I migliori poeti siciliani erano quelli che scrivevano senza cercare di stupire, in modo semplice e per sfogarsi. Anche nelle poesie più rozze si trovavano sentimenti forti e forme d’immaginazione, con una forma gentile e leggera, che veniva dal cuore. Erano poeti vicini alla natura e al sentimento popolare.
Viceversa, i poeti “studiati” avevano tutti i difetti della decadenza, di un’arte infettata nella culla. I concetti non venivano presi nudi e crudi, ma già confezionati; il poeta colto li assottigliava per fare effetto e li rendeva esagerati. Nei rozzi il lavoro manca, mentre nei poeti studiati il lavoro c’è ma è freddo e meccanico.
Concetti, immagini, sentimenti, frasi, metri, rime: tutto è forzato, tormentato, oltrepassato, l’unico scopo è che il lettore ammiri la dottrina.
GLI ESPONENTI MASSIMI
I poeti siciliani di questo genere più ammirati furono Guido delle Colonne e il notaio Jacopo da Lentino.
Guido fu un uomo dottissimo. Era talmente colto che il suo volgare si avvicinava molto al latino, tanto che Dante definì le sue canzoni “tragiche” (ossia di genere nobile e illustre). Ma la natura non l’aveva fatto poeta, e la sua dottrina gli diede solo perfezione tecnica, senza farlo diventare un esempio ai posteri. Mancava il sentimento.
In Jacopo da Lentino i sonetti sono tirati alla massima stravaganza. Non mancano movimenti d’immaginazione e una certa energia d’espressione, ma sono affogati fra paragoni, sottigliezze e freddure. Jacopo non sente amore, ma scrive d’amore in modo falso.
Questi passatempi poetici, se rimasero estranei alla serietà e intimità della vita, ebbero grande influenza nella formazione del volgare, sviluppando la sintassi, il periodo e gli elementi musicali.