La lingua della poesia è nata in Italia prima di quella della prosa. Precisamente in Sicilia, alla corte di Federico II (1194-1250), in un ambiente di raffinata e uniforme cultura. La lingua in cui scrivono i nostri primi poeti è un siciliano illustre.
TUTTO NAQUE ALLA CORTE DI FEDERICO II
Dal dialetto parlato nelle città di Messina e eli Palermo, attraverso una complessa elaborazione stilistica, si era passati ad una lingua dotta, ricca di latinismi e di provenzalismi, ricca di quegli ornamenti retorici che erano adatti ad esprimere la raffinata ideologia dell’amore cortese diffusa allora in tutte le corti d’Europa. I poeti della corte di Federico II sono persone colte che conoscono sia il latino (la lingua della cultura in quel secolo e nei secoli che verranno) sia la poesia provenzale.
Non meraviglia dunque che caratteri linguistici e stilistici del latino e del provenzale entrino nella nuova lingua poetica che si va formando. Questa lingua poetica ha certo una fonetica siciliana (per esempio: diri ‘dire’, valùri ‘valore’, mi riturnu ‘mi ritorno’, omu ‘uomo’, billici ‘bellezza’); ma accoglie, per necessità di rima e per quella libertà di forme che è propria di ogni lingua poetica, caratteri di diversa provenienza.
ADATTAMENTI E RIME
Per far rimare còri con amùri ‘amore’ si sostituiva quest’ultima forma con amòri, forma latineggiante e al tempo stesso provenzaleggiante. Per far rimare pènu ‘io peno’ con plinu (o chinu) ‘pieno’ si sostituivano queste ultime forme con il latinismo plenu. Dal provenzale si prendevano vari vocaboli con i suffissi -anza, -enza e -ore (in siciliano -uri): beninanza ‘benessere’, valenza ‘valore’, dulzuri ‘dolcezza’. Per queste vie, il dialetto originario si modifica: abbandona i tratti più fortemente locali, assume forme interregionali e prestiti, soprattutto dal latino e dal provenzale. Si sviluppa un vocabolario astratto capace di esprimere l’ideologia dell’amore cortese. Come ogni lingua letteraria, questo siciliano illustre accoglie una varietà di forme concorrenti: varianti fonetiche (amùri accanto ad amóri) e morfologiche (_aiu ‘ho’, forma siciliana, accanto a ho), sinonimi di vario tipo e natura; insomma tutta una ricchezza di forme che rappresenta un distacco, uno scarto rispetto alla lingua di ogni giorno. I metri e le rime costringono a disporre i componenti della frase secondo una successione diversa da quella presente nella lingua comune. L’intento estetico appare allora prevalente: è nata una nuova lingua della poesia.
La poesia dei Siciliani ebbe una grande fortuna negli ambienti colti delle varie regioni d’Italia. In Toscana fu tradotta in forme linguistiche toscane e divenne il modello dei primi poeti di quella regione. Le circostanze e i modi che caratterizzano l’affermarsi di una lingua poetica sono simili anche presso altre civiltà e in altri momenti storici.
DIFFERENZE TRA LINGUA POETICA E COMUNE
Quando una parlata locale si trasforma in lingua poetica (o, più generalmente, letteraria) avvengono gli stessi fenomeni che abbiamo riscontrato nel siciliano illustre: livellamento delle forme locali, arricchimento di forme mediante l’imitazione di altre lingue di cultura; sviluppo del lessico astratto, sviluppo di varianti fra loro concorrenti, sviluppo degli aspetti retorici e ritmici della lingua. La lingua della poesia si distingue dalla lingua comune perché possiede propri caratteri formali e perché ha propri canali di diffusione. Entrando in ambienti colti, la lingua poetica è imitata e discussa, diventa un modello di scrittura e di comportamento. Soprattutto alle origini della nostra letteratura, leggere un testo poetico è un fatto che distingue la persona colta, il nobile, il potente, il ricco rispetto agli umili. Poiché vuole distinguersi dal comune, dal quotidiano, da ciò che è sulla bocca di tutti, la lingua della poesia cerca ogni via per ornare, nobilitare il discorso. Pertanto fa uso di arcaismi, che hanno una grande importanza nella poesia tradizionale, di forme rare, di vocaboli ripresi da altre lingue, di neologismi.
I poeti dimostrano una grande sensibilità per i valori fonici della parola. Dante, che è giustamente considerato “il padre della lingua italiana”, escludeva dalla lirica d’amore parole che egli considerava “aspre” nel suono (come greggia e cetra), o che considerava “puerili” (come mamma e babbo). Dalla ricerca di una lingua più appropriata, di un suono più armonioso, di un ritmo del verso più adatto alle immagini evocate dipendono le correzioni, talvolta assai laboriose, che alcuni dei nostri maggiori poeti hanno apportato ai loro testi. Basterà ricordare l’esempio del Petrarca, dell’Ariosto e del Leopardi.