Il romanticismo è una corrente letteraria e si diffuse per tutto l’Ottocento: in un certo senso è la cultura del secolo. Non è una semplice contrapposizione alla razionalità dell’illuminismo, anche se rispetto alla ragione mette l’accento sulla fecondità della passione, dell’irrazionalità e dell’indicibile.
IL ROMANTICISMO
In realtà il romanticismo si presenta in soprendente continuità con la ricerca illuministica del “moderno”; però, come se la sua maturazione si manifestasse in una sorta di trasgressione e di radicale novità culturale. D’altra parte, il romanticismo per tutto l’Ottocento raccoglierà orientamenti diversi e contrastanti: dall’esaltazione di un libertario individualismo alla proposta del più introverso, se non reazionario, spirito di conservazione.
In Italia la polemica romantica è condotta dalle riviste “Il Conciliatore” e “L’Antologia”: esponenti di spicco sono Giovanni Berchet e Silvio Pellico. Collaterali al romanticismo sono gli esiti altissimi della poesia in dialetto del milanese Carlo Porta e del romano Gioacchino Belli.
ORIGINE DEL TERMINE “ROMANTICO”
Il termine “romantico” deriva dall’inglese romantic (che ebbe inizialmente il significato perlopiù negativo di romanzesco, fantasioso, irreale), derivante a sua volta da romance, che designa in inglese il romanzo medievale e il poema cavalleresco italiano. Sul continente il termine acquista alla fine del Settecento un significato alquanto diverso, sinonimo di “pittoresco”.
È tuttavia lo scrittore tedesco J.G. Herder che usa per primo il termine a designare la poesia “moderna”, popolare e sentimentale, in contrapposizione alla poesia “antica”, cioé classica.
Gli elementi essenziali che costituiscono il tessuto del nuovo movimento romantico sono individualismo e popolo, natura, storia, amore totale, il senso di squilibrio dell’io tra fiaba e quotidiano.
INDIVIDUALISMO E POPOLO
l’io si deve esprimere; l’arte e la lingua non sono strumenti di conoscenza razionale, bensì espressioni istintive della libertà individuale e insieme dello spirito e dell’identità profonda del popolo. Se viene rifiutato il meccanicismo illuministico è solo perché la natura, per i romantici, resta il segreto stesso dell’energia vitale, la forza spirituale che parla attraverso i simboli e le analogie.
Nella storia tutto è dinamico, anzi è rivoluzionario e procede per fratture, superamenti, sintesi e crisi. Il sentimento è romanticamente un dramma perpetuo; l’amore è una prova estrema e coincide ironicamente con l’incompiutezza e la passione del frammento. Il senso di squilibrio (cioé l’aspetto negativo) dell’io, rispetto ai limiti del tempo e della realtà, mette il soggetto in una condizione di drammaticità che può ridursi sia a fiaba (i misteri delle tradizioni popolari, l’onirismo, il culto oscuro del Medioevo o l’esotico), sia paradossalmente alla quotidianità, in uno squardo realistico ugualmente esasperato e assoluto.
IL ROMANTICISMO ITALIANO
Il romanticismo italiano si delinea come un modello culturale più cauto e prudente rispetto agli analoghi movimenti tedesco e inglese.
Non fu mai una vera rottura con la tradizione. Anzi, in certi casi divenne un’occasione in più per esperire nuove formule rispettose della tradizione letteraria umanistica. La negazione di qualsiasi estremismo condusse a un dibattito meno ricco, ma non per questo meno interessante, rispetto a temi fondamentali come la ricerca di un linguaggio “popolare”, cioé non accademico e astratto, o la necessità di proporre una letteratura nazionale “utile” al progresso collettivo.
IL ROMANTICISMO EUROPEO
IN GERMANIA
In Germania il rapporto drammatico con gli antichi è il punto originario del romanticismo. Il “preromanticismo” tedesco è già di per sé la proposta di una ribellione artistica fondata sulla libertà del genio e sul suo tragico senso di impotenza espressiva.
Proprio il capolavoro di Wolfgang Goethe “I dolori del giovane Werther” (1774) fu il segnale più suggestivo di quella tragicità a cui sembrava destinato il nuovo eroe moderno. Ma queste esigenze si consolidarono nella nuova forma culturale del romanticismo solo nel momento in cui la forza di ribellione seppe aprirsi a un impegno positivo e originale. All’opera di Goethe si affiancò il lavoro teatrale di F. Schiller, che nel famoso saggio “sulla poesia ingenua e sentimentale” (1795) stabilì quella differenza – “ingenua“, la poesia degli antichi; “sentimentale“, riflessiva, critica e dunque indefinita quella dei moderni – su cui sarebbe maturata l’origine vera e propria del romanticismo europeo, all’interno del cosiddetto “gruppo di Jena“, ovvero il lavoro della rivista “Athenaum“, uscita dal 1798 al 1800, insieme con le opere dei fratelli Schlegel, di L. Tieck e di Novalis.
IN INGHILTERRA
In Inghilterra la maturazione romantica avviene attraverso l’opera altissima di William Wordsworth e Samuel Coleridge (coautori delle Ballate liriche, 1798), le raccolte poetiche di John Keats e Percy Bysshe Shelley e l’influsso di un “mito vivente” quale George Gordon Byron. Il romanticismo inglese è sì ribellione e senso realistico del dramma individuale, ma è soprattutto un nuovo ritratto sentimentale della natura così come è evidente anche nei “romanzi storici” di Walter Scott.
IN FRANCIA
Qui abbiamo un atteggiamento antilluministico (di dramma spirituale ed esistenziale) come già era stato quello Francois-René de Chateaubriand, durante gli anni della rivoluzione e dell’età napoleonica; il romanticismo divenne movimento consapevole per merito del trattato di Madame de Stael “Sulla Germania” (1813, però scritto tre anni prima). Durante la Restaurazione trionfò il modello sontuoso della prosa di Chateaubriand; e solo con la rivoluzione di luglio si verificò quel profressivo ma netto passaggio del romanticismo verso posizioni di tipo liberale e democratico.
Autori come Alfred de Vigny, Victor Hugo e soprattutto Alfred de Musset e Gérard de Nerval sono i fondatori di un romanticismo francese alla ricerca di codici nuovi e aperto all’esperienza straordinaria del notturno come della malattia, della rappresentazione realistica come di quella più esotica e sentimentale.
ORIGINI E PRIMA GENERAZIONE ROMANTICA
Il romanticismo italiano trovò la sua elaborazione nei dibattiti pubblici delle riviste. Quando la “Biblioteca italiana” diretta da Giuseppe Acerbi aprì il suo primo numero con l’articolo di Madame de Stael “Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni“, si avviò immediatamente un acceso dibattito fra classicisti e romantici. La rivista aveva un’impostazione classicista, senza mai essere settaria.
La polemica, del resto, si irrigidì su questioni quasi secondarie (l’uso della mitologia classica, il rapporto con le letterature straniere, l’unità drammatica del modello aristotelico). Posizioni classicistiche più intelligenti (Pietro Giordani) mantennero un sicuro punto in comune con le riflessioni romantiche nel desiderio di una letteratura italiana “universale“.
IL “CONCILIATORE”
I romantici italiani si raccolsero attorno alla rivista milanese “Il Conciliatore“, durata però solo un anno (1818-19) perché soppressa dalle autorità austriache. Nel gruppo emersero Pietro Borsieri (1788-1852) autore del divertente e ironico “Avventure letterarie di un giorno” (1816) e della stesura del programma del “Conciliatore“. Ludovico di Breme (1780-1820), un intellettuale di livello europeo, forse l’unico italiano capace di misurarsi con le riflessioni degli idéologues.
Il gruppo del “Conciliatore” tentò di mantenere in vita la ricerca del nostro migliore illuminismo, sostenendo con la novità romantica un senso storico della cultura, del senso civile e di una comune coscienza nazionale.
ESPONENTI DEL ROMANTICISMO
GIOVANNI BERCHET
Il milanese Giovanni Berchet (1783-1851) è famoso soprattutto per la “lettera semiseria di Giovanni Grisostomo al suo figliuolo“, pubblicata nel 1816 nella “Biblioteca italiana” e considerata il manifesto del romanticismo italiano.
La finzione di un padre che intende spiegare al figlio collegiale il significato della poesia romantica (presentandogli la traduzione, fatta dallo stesso Berchet, di due ballate del poeta tedesco Gottfried August Burger) serve ad affermare il carattere sostanzialmente “popolare” della poesia e il suo rapporto storico con il popolo. Nel rapporto fra scrittore e pubblico, il “popolo” rappresenta il gusto medio e borghese, opposto sia agli intellettuali raffinati, i “parigini“, sia alla plebe ignorante – gli ottentotti.
Berchet, esule in Francia, Inghilterra e Belgio perché carbonaro, tradusse molto (Il Bardo di Thomas Gray e il romanzo Il curato di Wakefield di Oliver Goldsmith) e tentò egli stesso, soprattutto con “I profughi di Parga” (1819-20) e le “Romanze” (1824), quel gusto medio della poesia “popolare” che aveva teorizzato.
SILVIO PELLICO
Silvio Pellico (1789-1854), piemontese di Saluzzo, è figura di rilievo del romanticismo risorgimentale. Colto e amico di letterati italiani e stranieri, compose soprattutto tragedie. La sua “Francesca da Rimini” venne rappresentata con grande successo nel 1815. Collaborò attivamente al “Conciliatore“, pubblicandovi anche la prima parte di un romanzo, “Breve soggiorno in Milano di Battistino Barometro“, che lasciò incompiuto.
Nel 1820 fu arrestato come carbonaro e trasferito ai Piombi di Venezia; la condanna a morte fu commutata poi nella carcerazione allo Spielberg, una fortezza in Moravia, dove rimase fino al 1830. Appena graziato compose l’opera autobiografica e per cui è più noto, Le mie prigioni (1832), che ebbe un grandissimo successo di pubblico in italia e all’estero (tradotta già nel 1833 in francese e successivamente in altre lingue). Letta subito, al di là delle intenzioni dell’autore, come atto di accusa contro il regime austriaco, l’opera è la sofferente descrizione del mondo del carcere come luogo dominato dall’ingiustizia e dalla violenza, popolato di emarginati e vittime, illuminato talvolta da gesti di intensa pietà umana.
Dopo la liberazione si dedicò ancora alla tragedia, scrivendo tra le altre Leoniero da Dertona e Gismonda da Mandrisio (1832), Corradino (rappresentato nel 1834 e pubblicato postumo), Eugilde della Roccia (1832), che solo in parte ripeterono il successo della Francesca da Rimini. Di scarso interesse è il suo trattato morale Dei doveri dell’uomo (1834).
LA SECONDA GENERAZIONE ROMANTICA
La chiusura del “Conciliatore”, la morte di Porta e di Ludovico di Breme segnano una paralisi del movimento romantico. A Milano forse solo Manzoni, anche se appartato e distante dalle polemiche, resta un punto di riferimento.
Tommaso Grossi (1790-1853), a parte interessanti opere in dialetto (Prineide, 1817 e La fuggitiva, 1816), scrive in lingua Ildegonda (1820), modello italiano della “novella romantica in versi”, e il romanzo storico Marco Visconti (1834), sulla scia dell’esempio manzoniano. Cesare Cantù (1804-1895), autore di una famosa storia universale (1838-1846), non ha lo spessore dei primi romantici. Solo Giovita Scalvini (1791-1843), segretario della “Biblioteca italiana”, è autore curioso di lavori interessanti come il poemetto “Il fuoriuscito” (iniziato nel 1822) e “Il saggio sui promessi sposi di Manzoni” (1829), straordinario per lungimiranza e acume critico.
“L’Antologia”, rivista nata a Firenze nel 1821 per merito del ginevrino Giampietro Vieusseux con la collaborazione di Gino Capponi (1792-1876), Cosimo Ridolfi (1794-1865) e Giuseppe Montani (1789-1833), raccolse in qualche modo l’eredità del “Conciliatore”, sebbene non avesse grande interesse a continuare la disputa classico-romantico, ormai spenta, ma aspirasse solo a rilanciare una prospettiva moderna ed europea della letteratura.
CARLO PORTA
Carlo Porta (1775-1821), poeta in dialetto milanese, occupa un posto particolare nel romanticismo italiano, esponente di quello che potremmo chiamare realismo romantico.
Funzionario statale, nel 1792 pubblicò El lavapiatt del Meneghin ch’è mort (Il lavapiatti del Meneghin che è morto) e, intorno al 1804, una spigliata e popolare versione-travestimento in milanese dell’Inferno di Dante. In un articolo sulla “Biblioteca italiana” (11 febbraio 1816) Giordani aveva attaccato la poesia dialettale, considerandola un esempio deleterio di particolarismo, da superare nella “pratica della comune lingua nazionale”. A questo attacco Porta rispose con violenti sonetti e con l’adesione alle proposte romantiche.
“SIMPATIA ROMANTICA”
Tuttavia, più che adesione fu semplice simpatia o, meglio, un interesse aperto a quella prospettiva di modernità e di spontanea comunicatività che Porta pensava essenziale non del romanticismo ma della poesia stessa. Intenso fu comunque il ruolo che egli ebbe nella vita culturale milanese: raccolse intorno a sé un ristretto e familiare cenacolo di letterati lombardi, tra cui G. Berchet, T. Grossi, E. Visconti; vi partecipò anche lo scrittore francese Stendhal, che ammirava molto la poesia di Porta. Dal 1814 al 1816 il poeta cominciò a raccogliere in vari quaderni autografi le proprie opere, che dopo la sua morte subirono censure moralistiche e cancellazione da parte di Luigi Tosi.
Nel 1817 venne pubblicata una piccola raccolta dal titolo “Poesie”. Postuma l’edizione del 1826 curata dall’amico Tommaso Grossi. Il mondo di Porta è una straordinaria rappresentazione linguistica del popolo e della borghesia che affollano piazze e mercati della Milano del tempo. La sua opera è un altissimo risultato di rapida e guizzante comicità e dolente satira sociale, come forse non accadrà mai più (eccetto per il poeta romantico G.G. Belli) in tutto il nostro Ottocento.
Determinanti sono una profonda ma mai corriva simpatia per il mondo dei perdenti e degli oppressi e l’infinita varietà dei registri del dialetto. Tra i risultati più straordinari, che lo pongono tra i grandi della nostra letteratura, i componimenti poetici:
- On miracol,1813-14
- La nomina del cappellan, 1819-20
- I desgrazi del giovannin bongee, 1812-13
- La ninetta del Verzee, 1814
- El lament del Marchionn di gamb avert, 1816
- On funeral, 1816
GIUSEPPE GIOACHINO BELLI
Figura complessa e a lungo ignorata della letteratura italiana, il romano Giuseppe Gioachino Belli (1791-1863) rappresenta con Porta una voce particolarmente significativa del realismo romantico.
Nato da una famiglia impiegatizia fedele al regime pontificio, lavorò a lungo come funzionario del governo papalino. La sua formazione proseguì quindi in maniera autodidatta: fu ampia e disordinata, subito caratterizzata da forti interessi letterari. Conobbe e apprezzò grandemente la poesia dialettale di Porta. Dal 1830 al 1837 e dal 1842 al 1849 scrisse i Sonetti in romanesco. Fu un uomo d’ordine sempre più marcatamente conservatore, al punto di rinnegare persino la propria opera dialettale.
LA POESIA ROMANTICA
I 2279 sonetti di Belli sono stati pubblicati integralmente solo nel 1952. Nella “Introduzione”, scritta nel 1831, il poeta indicò chiaramente il senso del proprio lavoro:
Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che è oggi la plebe di Roma.
Il poeta non si pone illusioni pedagogiche che possano far da velo al suo sguardo. Non rintraccia nel popolo mitiche innocenze da esaltare: la plebe romana è il frutto corrotto di un sovrapporsi plurimillenario di civiltà. Belli osserva distaccato tutto ciò: non è il suo mondo, è il mondo in cui si trova. Per rappresentarlo egli si crea uno strumento di grande efficacia: una voce narrante, che si frappone tra l’autore e l’argomento della sua opera, che si serve di un dialetto senza variazioni di registro.
Delinea così, sonetto dopo sonetto, un mondo in cui tutto si ripete rimanendo immobile. Siamo nell’infermo romano in cui, come in quello dantesco, non c’è il divenire. La battuta finale del sonetto è spesso una riduzione a nulla di quanto si era fatto intravedere. Da questo senso d’impotenza elevato a sistema nasce l’amara comicità belliana, che si risolve spesso in uno sberleffo verso i potenti. Il mondo dei Sonetti è staticamente ingiusto: neppure dalla morte è possibile sperare un cambiamento, ma all’improvviso, in alcuni scorci, mostra dentro di sé momenti di profonda delicatezza, di umana offesa che il poeta sembra quasi celare per pudore.