L’esame di coscienza di un letterato (1915) va considerato come significativa testimonianza. Non solo del dibattito su neutralismo o interventismo, ma anche di quel profondo conflitto di cui la cultura (non solo) italiana è sottesa nel primo quindicennio del secolo.

Collaboratore de “La Voce”, lettore sensibilissimo della letteratura contemporanea, Renato Serra portò nelle sue pagine critiche la vocazione autobiografica e lirica tipica dei vociani. Realizzò scritti e saggi di un’inconfondibile originalità, in cui gli estri e gli umori dell’uomo si fondono col sottile gusto del critico in un intricato andirivieni di descrizioni paesistiche, effusioni liriche e confessioni. A questo proposito, c’è ancora chi si chiede ancora se Serra più che un critico non sia stato un raffinato scrittore.

Questo indugiare su un testo, questa auscultazione della parola poetica – che si inquadrano nella quarta fase della rivista vociana – non si risolvono in un puro e freddo tecnicismo ma in “religione delle lettere“: Serra concepisce l’indagine critica come strafa privilegiata per comprendere l’umanità dell’autore letto e per scoprire ed esprimere la propria umanità di lettore. La pagina di Serra è scoperta di un’umanità (quella dell’autore letto) e confessione di un’umanità (quella del critico).

E tuttavia egli avverte – prima oscuramente, poi, di fronte alla guerra, sempre più chiaramente – quanto di elitario e di limitante ci sia in questa scelta di cultura e di vita; nell’Esame – scritto nel luglio 1995 prima di partire come volontario per la guerra, dove sarebbe morto – è proprio evidente la consapevolezza di una solitudine, di un’incapacità di aderire alla vita alla vita degli altri, destinati allo sbaraglio. Serra sente i limiti della propria condizione di letterato, le angustie del “carcere d’inchiostro” (è una sua definizione) e tocca con mano ora le carenze di tanta letteratura: per un verso rifiuta i miti attivistici ed estetizzanti con i quali la guerra viene drappeggiata; dall’altro sente l’angustia della raffinata solitudine decadente, del solipsismo, della riduzione della vita a pura letteratura.

Da ciò nasce l’adesione alla guerra: parteciparvi significa allinearsi con gli altri, con l’umile gente della sua Romagna, vivere una vita più autentica in quanto più simile a quella che tutti gli altri vivono e dovranno vivere. Serra imposta il problema più esistenziale che storico: ciò distingue la sua adesione da D’Annunzio e gli altri. Serra avvertiva i limiti dell’umanesimo raffinato che sfociava nella solitudine estetistica.

Che entrami – D’Annunzio e Serra – partendo da posizioni così lontane, potessero approdare entrambi alla soluzione della guerra, è la testimonianza dell’aggrovigliato dibattito nel quale la cultura italiana fu coinvolta in quegli anni.