«La recita perfetta, dove tutti sono buoni, tolleranti e amici, alla milionesima replica, può diventare asfissiante. E, bada, non mi sto esercitando nella classica critica alla società borghese: ipocrisia, bigottismo e cose del genere. Sto parlando di vera bontà, vere amicizie, vere buone intenzioni».
Ospite del nostro salotto digitale è l’autore Giuseppe Grosso Ciponte. Quando ho proposto a Giuseppe di parlarci del suo libro L’anno della clessidra orizzontale ci siamo sentiti telefonicamente.
Quella che doveva essere una breve telefonata si è trasformata in una lunga e piacevole conversazione. Giuseppe mi ha raccontato del suo libro e dei suoi riferimenti letterari trasportandomi in un mondo letterario d’altri tempi. Il suo approccio mi ha ricordato molto la narrativa fantozziana, una narrativa che si avvale della satira e dell’esagerazione per raccontare ciò che sembra un teatro dell’assurdo ma che invece rappresenta (quasi fedelmente) una grottesca realtà.
Cominciamo con le domande. Ciao Giuseppe e benvenuto su sergiodetomi.it! Di cosa parla il tuo romanzo «L’anno della clessidra orizzontale»?
Ciao Marco, grazie per lo spazio e per l’interesse.
«L’anno della clessidra orizzontale» è un’indagine particolare: Riente, il protagonista, salta i festeggiamenti di Capodanno perché si addormenta di pomeriggio e si veglia la mattina dopo. Dovrebbe essere già il 2020, ma il tempo sembra invece attorcigliarsi su se stesso, in un ciclo in cui non ci sono più date e calendari, ma solo minuti, ore, giorni, settimane, appuntamenti.
Nelle sue indagini, se così possiamo chiamarle, Riente interroga amici e conoscenti, ma nessuno può rispondergli perché tutti hanno riferimenti di tempo solo relativi, mai assoluti, imbrigliati come sono nella rappresentazione sociale di se stessi.
L’eroe della storia è sdoppiato: da una parte recita sempre bene la sua parte, dall’altra è insofferente alla rappresentazione e prova ad analizzarla assieme a Kalos, il suo migliore amico. Dei due però, solo il primo riuscirà a trovare una ricomposizione paradossale a questa spaccatura.
Qual è l’idea iniziale che ha ispirato la scrittura di questo libro?
Il mio lavoro di insegnante. Il tempo dell’insegnante sembra essere scandito dell’orario scolastico, dal susseguirsi dei giorni della settimana che sembrano scorrere come un rullo, finché un giorno, quasi all’improvviso, l’anno è già finito.
A settembre, al contrario, l’inizio anno sembra sempre un tempo sospeso, tra orari provvisori, docenti precari che tardano ad arrivare, riforme incombenti, cumuli di burocrazia prossima-ventura.
Talvolta ho l’impressione (e non solo io) di cadere in una perenne attesa di un «tempo normale» che non arriverà mai.
Ci ritroviamo spesso, tra colleghi, a chiederci «ma quando inizia quest’anno?».
Da qui lo spunto iniziale del libro.
Nel tuo libro ci sono sia elementi lirici che comici. Come può un romanzo tragico diventare comico o viceversa?
Io porrei la domanda in modo diverso: come può un romanzo essere comico e tragico allo stesso tempo? E la risposta è piuttosto semplice, perché già formulata da Pirandello nel famoso saggio L’umorismo.
Il comico scaturisce da quello che lo scrittore siciliano chiama «avvertimento del contrario», cioè dall’accorgersi che una persona o un personaggio sono inadeguati rispetto alla società o alla situazione in cui sono inseriti. L’umorismo invece (che ingloba una dimensione tragica) scava nelle storie, nei motivi, nei nodi irrisolti che stanno dietro a quell’inadeguatezza.
Pirandello parla di «sentimento del contrario»; con un linguaggio alla moda potremmo dire che si ha arte comico-tragica (quindi umoristica), quando l’autore ci costringe a provare empatia per il personaggio che vorremmo denigrare con il riso.
Un grande esempio di umorismo nella cultura popolare è proprio il Fantozzi da te citato nell’introduzione. Fantozzi è il classico capolavoro umoristico: comico e tragico, divertente e, allo stesso tempo, spietato nell’analisi della società.
Villaggio (che ha creato il personaggio in un romanzo, non dimentichiamolo) è stato un grande interprete della lezione di Pirandello.
La recita perfetta della società
Qual è la tua idea circa la società di oggi?
Mi ricollego alla prima domanda, quella sul tema del mio romanzo.
Io vedo la società di oggi come una «recita perfetta», talmente perfetta da potersi permettere di esibire la sua messa in scena. Pellicole come Matrix o The Truman Show sono momenti in cui la società confessa di essere essa stessa un film, un’ipnosi di massa, uno «spettacolo» della realtà.
Solo che c’è un problema.
Anche la recita perfetta, dove tutti sono buoni, tolleranti e amici, alla milionesima replica, può diventare asfissiante. E, bada, non mi sto esercitando nella classica critica alla società borghese: ipocrisia, bigottismo e cose del genere. Sto parlando di vera bontà, vere amicizie, vere buone intenzioni.
La recita della vita in quanto tale, un tema di cui hanno parlato tanti letterati e studiosi – Pirandello nella letteratura, Goffman nella sociologia, ad esempio – finisce per essere percepita come una prigione e provoca, sia nei prigionieri che negli agenti di custodia, un desiderio di alterità.
Questo senso di straniamento, lungi dall’essere solo un disagio, è spesso anche una via di fuga, una strategia di sopravvivenza.
Ti ricordi come finisce La grande bellezza di Sorrentino, cosa dice il monologo finale di Jep Gambardella?
«Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo. Bla. Bla. Bla. Altrove, c’è l’altrove. Io non mi occupo dell’altrove. Dunque, che questo romanzo abbia inizio. In fondo, è solo un trucco. Sì, è solo un trucco».
Anche Jep sa che c’è l’altrove: ha conosciuto la Santa che si nutre solo di radici e conosce il verbo degli uccelli (una sorta di San Francesco al femminile). Però Jep non vuole occuparsi di questa dimensione, perché non si sente in grado, perché è troppo tardi. È sempre troppo tardi nella vita.
Ecco, io la penso al contrario di Jep Gambardella: io vorrei occuparmi dell’altrove.
Senza l’altrove, la recita perfetta rischia di trasformarsi nel perfetto suicidio: mentre siamo occupati a piangere per l’Olocausto o per un infanticidio raccontato «a puntate» in tv, mentre siamo impegnati ad essere sempre più buoni, potremmo non accorgerci della morte, per eutanasia, della cultura europea.
Senza l’altrove, lo straniamento può diventare distruttivo. Spesso è la violenza la strategia di sopravvivenza di chi è vittima di straniamento negativo. La nostra società «dei diritti umani «è piena di aspiranti guerrieri che vanno alla ricerca di battaglie dove non ci sono, che vanno a caccia di uomini, che uccidono innocenti.
Io temo – e sono serio – che nel nostro mondo della bontà, della tolleranza e della pace universale aumenteranno violenza, assassinio e malattia mentale.
La ricaduta nella barbarie, per «eccesso» di civilizzazione è qualcosa che ha descritto molto bene lo scrittore inglese James G. Ballard. Io consiglierei a tutti gli entusiasti di cause civili e flash mob vari di andarsi a leggere Crash, Il condominio, Il paradiso del diavolo e La mostra delle atrocità.
Anche se è difficile da accettare, c’è una cattiveria narcisistica dei buoni. La cattiveria dei cattivi la vedono tutti; ci vuole invece più acume (e coraggio) a vedere gli aspetti oscuri insiti nella ricerca di una certa libertà e di una certa felicità.
Il mio libro, in parte, è dedicato a questo: la cattiveria e l’autolesionismo dei buoni.
Qual è il ruolo dello scrittore nella società di oggi?
Non mi sono mai posto la questione. Sono più preoccupato del ruolo della società stessa. La nostra società parla troppo, comunica troppo e acchiappa poco. Da questo punto di vista lo scrittore rischia di essere solo uno dei tanti «circensi» che si aggirano nel mondo dello spettacolo.
Non è che voglia fare lo spocchioso, ma è evidente che molti scrittori non sono altro che prodotti di marketing studiati a tavolino. E non parlo di Fabio Volo o di altri personaggi della tv prestati alla scrittura, ma anche di autori con un’aura da intellettuale.
Non escludo che il «circense» possa produrre opere interessanti, perfino dei capolavori, ma il suo ruolo è in definitiva quello di abbellire il discorso dominante o fare «l’anticorpo», cioè interpretare l’elemento «oppositivo», creato dallo stesso corpo malato per difendersi meglio dagli attacchi esterni.
Questo ruolo dello scrittore non mi interessa. Quello che mi interessa della scrittura, dell’arte in generale, è la ricerca della verità. Questa attitudine può manifestarsi in forme diverse.
Il romanzo, ma anche il saggio o il trattato filosofico, possono assomigliare alla «veggenza», possono cioè tratteggiare con decenni, secoli di anticipo le linee di sviluppo della storia.
È impressionante, ad esempio, l’attualità di un testo del 1600 come La nuova atlantide di Sir Francis Bacon, una descrizione perfetta della società tecnocratica e della tentazione di una «ecologia» concepita come sottomissione totale della natura ai bisogni dell’uomo.
Uno scrittore può essere la coscienza critica di un’intera società. Un tipico esempio è stato Pasolini, un autore di cui paradossalmente non apprezzo quasi nulla: né la poesia, né la letteratura, né il cinema. Gli riconosco però di essere stato la coscienza critica del nostro paese con la sua sola presenza pubblica.
Pasolini è un personaggio molto diverso dal classico «ribelle», dall’autore fintamente scomodo (quello che ho chiamato in precedenza «anticorpo»). Non a caso stava sulle scatole a tutti, non solo ai suoi nemici. Mi riprometto, prima o poi, di leggere Petrolio che forse può farmi ricredere su di lui, anche dal punto di vista strettamente letterario.
La scrittura infine, a mio parere, può anche essere una specie di Arca di Noè: deve preservare, anche nei momenti di massima crisi, quando il diluvio sommerge le coscienze, i semi generativi, i valori eterni da cui dipende la persistenza della creazione.
Questa è la funzione più importante delle tre, questo è il ruolo di Platone, Dante, Shakespeare, Goethe, Rumi, dei casi in cui la scrittura è una sorta di «iniziazione».
Quali sono i tuoi riferimenti letterari?
Mi piacciono molto i già citati Pirandello e James Ballard.
Ho amato, a partire dagli anni del liceo, Tommaso Landolfi, uno scrittore spesso citato per lo stile inimitabile, per la strenua e aristocratica conservazione dell’italiano letterario.
Di Landolfi mi ha sempre affascinato anche l’incredibile abilità nel porre domande vertiginose, la scelta di temi paradossali, la fantasia prodigiosa. Sono qualità che in parte ho ritrovato anche in Buzzati, altro scrittore che mi è sempre piaciuto.
Un altro mio riferimento è sicuramente Boris Vian: La schiuma dei giorni e Sputerò sulle vostre tombe sono tra i miei romanzi preferiti. L’albino nero protagonista di Sputerò sulle vostre tombe è il personaggio letterario più inquietante in cui mi sia mai imbattuto: è la perfetta incarnazione dello straniamento negativo che sfocia nella violenza efferata di cui parlavo prima.
Ho letto tutti i grandi romanzi di Dostoeveskij e in generale mi capita spesso di trovarmi in sintonia con gli autori russi o dell’Europa dell’est. Negli ultimi anni, ad esempio, sono andato in fissa con Mircea Cartarescu, il grande scrittore rumeno.
Borges è l’autore che forse si avvicina di più alla mia idea di letteratura; paradossalmente però il suo stile, nonostante le splendide metafore universali attorno a cui ruota, mi lascia quasi sempre freddo.
Tra gli scrittori italiani viventi mi piacciono Aldo Busi (quello delle opere principali), Giuseppe Culicchia e Massimiliano Parente.
Di Culicchia mi piacerebbe essere amico (non sarebbe neanche difficile, visto che abitiamo quasi nello stesso quartiere); Parente invece, se lo incontrassi per strada, lo riempirei di botte: pur essendo un grande scrittore, che ammiro molto, ha delle idee insopportabili.
Sarebbe anche simpatico: è un bravissimo provocatore, una persona per certi versi veramente libera, ma non riesco proprio a digerire il suo scientismo illuministico, così estremo da denigrare perfino Dante e Platone.
Ultimo dei miei maestri (che ahimè non riuscirò mai a imitare) è Cornell Woolrich, il poeta del noir, un architetto di atmosfere cupe, troppo sottovalutato, molto più bravo di tanti premi Nobel. Non vorrei «sputare su qualche tomba», ma tra Hemingway e Woolrich, io preferisco Woolrich.
Quest’ultima affermazione non è poi così strana perché sono un «allievo» che si caratterizza anche per l’avversione nei confronti di molti «maestri» della letteratura. Non sopporto Carver e non riesco a leggere Philip Dick. Donald Antrim non mi dice nulla.
La parte più razionalista di Calvino (Palomar ad esempio) la trovo indigesta. Manderei al rogo Il colibrì di Veronesi. L’elenco potrebbe essere ancora lungo e comprendere anche tanta letteratura indipendente. Spesso i circoli secondari, infatti, sono ancora più insopportabili del cosiddetto mainstream.
Perché manderesti al rogo Il colibrì di Veronesi?
Perché il messaggio che emerge da Il colibrì è inquietante, quel libro è una summa di disvalori che sostanzialmente l’autore giudica in modo benevolo. E il fatto che il romanzo abbia vinto il premio letterario più importante d’Italia peggiora il mio fastidio: significa che quei disvalori iniziano a essere percepiti come valori positivi.
Quali consigli daresti a un autore esordiente?
Sono io stesso un esordiente, anzi come dico spesso, per distinguermi dagli esordienti, sono un autore «inesistente», quindi non so se posso permettermi di dare consigli, che poi sono sempre gli stessi: leggere tanto, non scrivere senza aver «digerito» tanta letteratura; non essere presuntuosi, non aver paura del confronto con il lettore e con gli altri scrittori.
Non bisogna prendersela se si viene rifiutati dagli editori: fa parte del gioco. La maggior parte delle volte hanno ragione loro. Alcune volte però ci sono delle eccezioni e, di solito, sono clamorose.
Sono famosi il caso di Morselli (che non convinceva Calvino) e le vicissitudini editoriali di Moresco. Io stesso mi sono imbattuto in un capolavoro inedito: Il dio di Lubiana di Sergio Sozi, un romanzo che dovrebbe essere immediatamente pubblicato da Mondadori, Rizzoli, La Nave di Teseo. Certe volte le scelte degli editori sono inspiegabili: Sozi ha pubblicato già otto libri, fondato riviste letterarie, scritto decine di articoli, eppure viene pressoché ignorato. Questo sarebbe ancora tollerabile se nel frattempo non si pubblicassero (e promuovessero!) romanzi scritti con i piedi e anche con parti meno nobili del corpo.
Per gli autori esordienti ho anche qualche consiglio contro-corrente.
Primo: pensare letterariamente e non cinematograficamente. L’applicazione superficiale delle «tavole della legge» della scrittura creativa porta all’imitazione del cinema, arte peraltro moribonda e che ha prodotto pochissime opere interessanti negli ultimi anni.
Prima di innamorarsi della scrittura «cinematografica» bisogna rendersi conto che, ben prima del Covid, il cinema è stato superato dai videogiochi negli incassi e nelle preferenze del pubblico.
Scrivere oggi una storia coinvolgente «come un film» è quindi un modo vecchio e superato di fare letteratura.
Io sono sicuro che i grandi registi, in questo momento, stanno pensando a come fare film «più letterari» e non capisco quindi perché gli scrittori debbano scrivere film invece che romanzi.
Secondo consiglio agli esordienti: leggere più autori italiani. Bontempelli, Landolfi, Palazzeschi, Morselli, Calvino, Arbasino, Flaiano, Bufalino. Se uno è appassionato di giallo e poliziesco c’è Scerbanenco.
Le traduzioni ci permettono di conoscere l’opera di autori importanti, ma formare il proprio stile sulle traduzioni di autori è patetico e autolesionistico. I grandi scrittori italiani leggevano i grandi scrittori stranieri in lingua originale (non sempre erano capaci di tradurli, ma questo è un altro discorso).
La traduzione avvicina quello che è lontano e allontana quello che è vicino: finisce che Chaucer sembri più leggibile di Dante. Bisogna essere coscienti di questo paradosso.
Terzo e ultimo consiglio: rileggersi ogni tanto quella parte del Fedro in cui Platone parla della scrittura come «dimenticanza», per ricordarsi che il rapporto tra scrittura e sapere si regge su un paradosso in cui è la prima a «usurpare» il secondo.
Progetti futuri?
In questi giorni sto ultimando un progetto a cui abbiamo lavorato assieme a William Bavone, Gabriele Giuliani e Roberto Van Heugten. È una raccolta di sedici racconti (4×4) che hanno in comune una cifra tragicomica.
È stata una collaborazione molto divertente. La scrittura è spesso, dal punto di vista pratico, un’attività noiosa e ripetitiva; stavolta invece i suggerimenti e le dritte dei miei più esperti colleghi hanno reso tutto più leggero.
Per la prima volta è come se avessi avuto a che fare con un vero editor, con qualcuno che tira fuori qualcosa che era già implicito nel mio testo e che, tuttavia, non ero riuscito a mettere nero su bianco.
Per il resto continuo a scrivere racconti. In questo momento ne sto scrivendo uno ambientato nel mondo della scuola.
Scrivere racconti per me ha un doppio obiettivo. Il primo è a breve termine: arrivare a un numero congruo di racconti per proporre poi agli editori una raccolta.
Il secondo obiettivo è invece a medio-lungo termine: spero che uno di questi racconti possa «lievitare» e espandersi fino a diventare il nucleo originale di un’opera più lunga.
Tra i miei progetti comunque c’è sempre quello di non scrivere, se non ho nulla di importante da dire. Se immagino un libro, ma qualcuno l’ha già scritto prima di me, fidati, sono ben felice di risparmiarmi la fatica.
Ringrazio Giuseppe per il tempo dedicato al nostro sito. Un’intervista ricca di spunti e importanti riflessioni che denota la profondità e la competenza dell’autore. Invito i lettori a scoprire di più su Giuseppe e il suo lavoro cliccando al seguente link www.clessidraorizzontale.it
Bellissima intervista, Giuseppe. Ti ringrazio per la citazione e ricambio di cuore, quest’esperienza del 4×4 è avvincente e spero abbia un giusto riscontro 🙂
Roberto VH