Quali sono i primi documenti della lingua italiana? Il latino parlato nelle diverse province dell’Impero romano si trasformò nel corso dei secoli, dando origine alle moderne lingue romanze. Parlo del portoghese, francese, italiano, rumeno, spagnolo. Per molto tempo, però, la lingua scritta rimase il latino. C’era una lingua della cultura, la quale era distinta dal “volgare”, mezzo di comunicazione del popolo, dell’uso quotidiano di ogni fascia sociale.
In Italia il volgare cominciò ad affermarsi in modo abbastanza ampio e significativo nel Duecento. Tuttavia, già a partire dai secoli IX e X, affiorarono qua e là per l’Italia interessanti testimonianze scritte, diventate poi i primi documenti dell’italiano.
L’INDOVINELLO VERONESE
Il primo documento della nostra lingua risale all’anno 800 circa: si tratta di un indovinello scritto in una lingua mista di latino e volgare veneto. L’indovinello veronese – chiamato così perché si trova in un manoscritto della Biblioteca Capitolare di Verona – svolge un paragone tra l’azione dello scrivere e quella dell’arare:
Se pareba boves, alba pratalia araba,
L’indovinello veronese
albo versorio teneba et negro semen seminaba.
Cioè: “Spingeva avanti i buoi (= le dita), arava prati bianchi (= la pergamena), teneva un aratro bianco (= la penna d’oca) e seminava un seme nero (= l’inchiostro)“. La soluzione dell’indovinello dunque è lo scrittore, il quale con le dita simili ai buoi del contadino, tiene la penna con cui scrive sul foglio seminando inchiostro. La lingua del componimento non può ancora definirsi propriamente volgare: è piuttosto latino medievale con alcuni volgarismi, come la caduta della -t finale nei verbi pareba, araba e seminaba.
IL PLACITO DI CAPUA
Molto importante il cosiddetto “placito” (sentenza) di Capua. Nel mese di marzo del 960 un giudice della città campana deve decidere su una lite tra l’abate Aligerno di Montecassino, famoso e ricco monastero benedettino tuttora esistente, e il nobile Rodelgrimo, originario di Aquino. Secondo Rodelgrimo, il monastero occupa illecitamente alcune terre di sua proprietà; ma l’abate porta tre testimoni che pronunciano davanti al giudice il seguente giuramento:
Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene,
Placito di Capua
trenta anni le possete parte Sancti Benedicti.
La frase, in un dialetto molto simile a quello napoletano, significa: “So che quelle terre. entro quei confini di cui si parla qui, le possedette trent’anni il monastero di San Benedetto“. L’abate, grazie alla testimonianza, vinse la causa. Il verbale, conservato nell’abbazia di Montecassino, è scritto in latino, mentre solo il giuramento è in volgare. Abbiamo l’esempio più antico di una netta contrapposizione tra latino e volgare. Il placito può dirsi “l’atto di nascita” della nostra lingua.