Grazia Deledda (1871-1936) godette di tanta estimazione da meritare il premio Nobel nel 1926. Già nel primo quindicennio del secolo aveva pubblicato alcune delle sue opere più importanti:
- Elias Portolu, 1903;
- Cenere, 1904;
- Canne al vento, 1913;
Ma la sua attività si estese comunque oltre, con opere come “L’incendio nell’uliveto” e “Cosima, rispettivamente datate 1918 e 1937.
VECCHIO VERISMO E INQUIETUDINI NUOVE
La sua posizione è assai interessante e ha dato luogo a valutazioni contrastanti. Grazia Deledda continua il verismo proprio quando questo si allontana dall’attualità letteraria, innestando in vecchi modelli veristici problematiche e sensibilità nuove. Più che delle condizioni della Sardegna, a lei interessano temi estranei alla tradizione del verismo:
- Senso del peccato e della colpa;
- Necessità di espiazione;
- Concezione della vita quasi “religiosa”;
- Insistenza sulla fragilità dell’uomo;
- La tendenza a fare dei personaggi degli emblemi;
- La ricerca di corrispondenze tra stato d’animo e paesaggio.
Il suo caso si può quasi accostare a quello di Pirandello, che suppergiù negli stessi anni continua apparentemente una tradizione di verismo (basti pensare alla Sicilia, al mondo della piccola borghesia impiegatizia). Legittimo sembra anche l’accostamento alla pittura italiana di quegli anni: pittori di provata vocazione realistica, come Segantini e Previati, cedono alle suggestioni del simbolismo. Pur conservando un’estrema attenzione nella rappresentazione del vero, la caricano però di significati particolari, di ambiziose alluzioni.
GRAZIA DELEDDA: UN CASO ISOLATO
Questa simultanea presenza di vecchio e nuovo spiega le contrastanti valutazioni dell’opera della Deledda. Molti critici del Novecento – Cecchi, Momigliano – hanno forse esagerato nel legarla al Decadentismo; altri hanno voluta portarla nei confini del verismo, sostenendo che:
Il verismo rimane estraneo alla sua cultura come alla sua arte.
Sapegno
Certamente nella letteratura del Novecento le spetta una posizione particolare, isolata. Potremmo riassumerla così: Grazia Deledda ebbe una grande capacità di calare i personaggi e paesaggi in un’atmosfera tra lirica e ieratica; s’impegnò per trasferire la vicenda di stampo veristico regionale su un piano di mitica solennità, che dà alla problematica morale-religiosa (passione, colpa, espiazione) una suggestione particolare.